FASCICOLO III - NOVEMBRE 1928
Notiziario

CORRIERE ARCHITETTONICO

LA FONTANA DI PIAZZA DEI QUIRITI IN ROMA dello Scultore ATTILIO SELVA

Attilio Selva sa allargare la propria sensibilità di scultore, passando dalla costruzione plastica e ritmica della forma umana a quella delle masse e dei volumi in generale.
In questi ultimi tempi l’abbiamo visto anche vigoroso e significativo compositore degli elementi architettonici sussidiari delle sue concezioni scultoree. La fontana che qui presentiamo è un esempio di tale recente attività.
Libera di reminiscenze stilistiche, la forma è attinta direttamente al soggetto; la pietra sente l’acqua, palpita del vivo elemento che la riempie e vela.
La foglia larga, dalle labbra grasse ed abnormi, cresciuta nelle valli, ove l’acqua degli stagni la nutre d’opulenza ampollosa e caduca, vive colla sua stessa sostanza nelle sinuosità carnose del travertino.
La fontana, sul largo bacino, è tutta una strana costruzione di elementi vegetali, foglie, petali, picciuoli, composti in armonico volume.
Le quattro figure di donna innestate nel fiore mostruoso, ad aiutare l’ultimo stelo nel sorreggere il calice troppo pesante, cooperano ad accentuare la fantasiosità della composizione che ci piace appunto perchè astratta, fiabesca, inventata, vissuta sicuramente per la prima volta.
Siamo così assetati di fantasia in questo periodo di cerebralismo, di imitazione, di sforzo, di economia, di calcolo, di povero sentire insomma, che una volta tanto ci piace trabordare.
La plastica delle figure, dalla carne vigorosa ed esigente, ma sana e casta, è la solita che conosciamo di Selva; il quale sente davvero la materia col suo pollice di scultore e non la vede solo col cervello, attraverso i complicati prismi della sterilità, come tanti suoi colleghi d’oggi.
PLINIO MARCONI.

LA NUOVA CASA CICOGNA IN MILANO
Architetti BERGOMI E CANEVA

Le sgraziate fabbriche, sorte di recente a specchio delle acque, in verità poco limpide, del Naviglio interno, a turbare la linea tradizionale dei vetusti pittoreschi edifici, rendono meno penosa la scomparsa, che si annuncia prossima, di quest’ultima caratteristica del vecchio centro cittadino. Ma buona eccezione, fra troppe costruzioni nuove di aspetto petulante e banale, segnano le due case disegnate dall’architetto Bergomi in collaborazione coll’architetto Caneva, la casa Damioli e la contigua casa del conte Cicogna. Quest’ultima, in angolo fra Via San Damiano e il Corso Monforte, affronta con elegante semplicità l’arduo problema della sistemazione di una fronte architettonica in un raccordo curvilineo. La soluzione è ottenuta con estrema parsimonia di mezzi, che oggi può parere aridità, quando le preferenze del pubblico sono ancora rivolte alla sgargiante faciloneria del cemento modellato, ed è invece il segno di gusto artisticamente raffinato. Alla severa logica che governa la linea di ogni elemento sembrano sfuggire, sola lieve menda, le serraglie sopra le finestre di piano terreno, che non trovano nella struttura e nelle ricorrenze della fronte le loro premesse, pur formando un particolare di buon disegno di piacevole effetto.
Tutto è attuato con nobiltà di materiale: il ceppo mezzano di Brembate ha dato le lesene, i cornicioni e l’alta zoccolatura fino al primo piano: il bardiglio, le sottili lastre di contorno e i davanzali delle finestre: l’intonaco negli sfondi è di calce e polvere di marmo bianco.
P. MEZZANOTTE.

CASA A MILANO IN VIA SAN VITTORE
degli Architetti EMILIO LANCIA e GIOVANNI PONTI

Presentiamo qui la più recente opera d’architettura di Ponti e Lancia: costruzione di non comune importanza e ricca di temi assai interessanti.
Casa di lusso: dunque tutte le trovate e gli agi vi devono essere rappresentati, a costo di sacrificare spazio o rinunciare allo sfruttamento geometrico ed analitico dell’area. Facciate chiare e piane, atri, gallerie, scale moltiplicate, e cortili infiorati, e appartamenti diurni e notturni: tutto il meccanismo della moda recente impiegato nelle soluzioni più eleganti.
Già la pianta appare congegnata con tali propositi: due ingressi, l’uno padronale e raccolto, l’altro carraio ed ampio; ed una portineria così disposta da sorvegliare il doppio passaggio. Poi bisogna notare l’accorgimento estetico del vestibolo rotondo adottato per mascherare certa fatale stortura dell’area fabbricata; poi, il cortilone interno diviso in due parti ben distinte ed a diverso livello, come esigono le disparatissime funzioni di ciascuna.
Questa complessa planimetria appare ben studiata ed organica, benchè risolta con notevole spreco di spazio. Ad esempio, per raggiungere la scala occorre fare una vera camminata, soverchia ed inutile davvero, benchè attraverso ad una fastosa ed ornatissima galleria. Ma tant’è: la casa ha da essere più bella dentro che fuori; e perciò si è abbondato in passaggi ed atrietti e disimpegni. Così si è dato motivo e pretesto per la decorazione d’ambiente cui son tanto devoti Ponti e Lancia.
Non è la prima volta che dobbiamo accusare di tali preferenze le opere «architettoniche» dei due giovani architetti. La loro non è mai una «architettura» nel vero senso della parola, perchè troppo spesso manca di unità, e sacrifica l’organismo davanti alla decorazione. Anche le facciate, interna ed esterna, di San Vittore, risultan troppo legate ad una eccessiva preoccupazione decorativa. Son pareti distribuite con gusto piacevole, son cornici e riquadri, specchiature e pannelli, nicchiette e balconi, ma non è sempre «architettura».
Cosicché la prima impressione genera disorientamento. E, stavolta, le fronti interne ci sembrano perfino un poco disordinate più che fastose. Meglio assai le parti ove la decorazione ha la maggiore ragione d’essere e può liberamente ed a buon diritto svilupparsi col gusto leggermente caricaturale e d’eccezione preferito da Ponti e Lancia. Pavimenti a mosaico, marmi attorno alle porte, stucchi sulle pareti e sulle vôlte, tutta una generosa profusione d’elementi sereni e, tanto spesso, addirittura allegri, che bene invitano a rifugiarsi nel molle e lezioso tepore d’una casa ospitale.
Un cenno sui principali materiali impiegati: all’esterno zoccolo e contorni in travertino, fondi ad intonaco gialliccio. Dentro, mosaici e stucchi, gialli di Siena; la scala in pietra del Carso; le ringhiere in ferro e ghisa fusa e verniciata. Un pò ovunque, intonaci a calce o polvere di marmo lavorati in vari modi.
F. R.

ARCHITETTURA MODERNA VENEZIANA

Altre volte la nostra Rivista ebbe occasione di illustrare la produzione architettonica di artisti veneti. Ora torniamo sull’argomento.
Tra gli indirizzi eterogenei e talvolta discordi prevalenti nei vari centri architettonici in Italia, nel presente periodo di lento ma sicuro ritrovamento di una nuova personalità stilistica nazionale, quello svolgentesi nella regione veneta in generale e tra gli artisti veneziani in particolare non è il meno improntato di valore.
Del valore esso ha infatti alcuni caratteri fondamentali: intanto la coscienziosità dei tentativi ed il tormento della ricerca interiore; qualità queste emergenti dallo stesso carattere frammentario e fluttuante degli indirizzi, dai quali esula la pedestre imitazione del vecchio o dell’estraneo e la leggera faciloneria o la sbrigliata fantasiosità a buon mercato.
Da questo tentare in campi disparati, da questa mancanza di accontentamento e di esaurimento della volontà di ricerca, da questa apparente incostanza di carattere, deriva lo stato di animo di parecchi fra gli architetti più seri, insoddisfatti di se stessi, dolenti di una povertà che ancora non ha saputo vincersi con forme di valore definitivo.
Simili crisi, appunto perchè profondamente sofferte, sono sempre il punto di partenza verso raggiungimenti concreti.
Non esiste ancora una netta fisionomia architettonica nel Veneto, ma una serie di realizzazioni parziali, ciascuna delle quali contiene un proprio calore e testimonia di personalità in isviluppo: è già molto nella presente fase di formazione dell’arte italiana.
È preferibile infatti l’inquieto movimento a certe apparenti maturità che indicano un accontentamento prematuro.
Non esiste dunque nelle opere che esamineremo unità di stile, spesso nemmeno tra quelle di ciascun artista. Talvolta vediamo alzati a motivo architettonico degli elementi dell’arte rustica adriatica, antica e moderna, o svolti dei temi tratti dalle fabbriche medioevali e del primo rinascimento; tal’altra volta notiamo ricerche di allacciamento alle architetture del Palladio o del Sansovino, o di ulteriori sviluppi del settecento veneziano. Quasi sempre si rifugge sanamente dall’ispirarsi al gotico veneziano, come da espressione di un momento storico speciale svoltasi ed esauritasi in se stessa fino all’ultima perfezione, senza lasciar fuori della propria pienezza alcun elemento vitale suscettibile di essere continuato.
In questo fascicolo offriamo ai lettori della rivista alcune recenti produzioni di Brenno Del Giudice, di Giuseppe Torres e di Orfeo Rossato.
Di Del Giudice diamo in primo luogo la fotografia della Chiesa-Ossario di Vidor eretta quale monumento ai caduti della nostra guerra: di essa pubblicammo a suo tempo il progetto. L’autore si ispira nella sobrietà volumetrica delle forme e nella materia usata, alle costruzioni della piana veneta. Il muro di cinta che sorregge lo spalto racchiudente la chiesa, è unito architettonicamente all’altura ove posa, pel legame di rudezza della pietra in vista e per la robusta parsimonia degli andamenti. Sopra di esso si alza la fabbrica, tutta bianca, modesta e serena coi suoi piani lisci, con le ombre quiete del portico, ed i piccoli campanili laterali: forme tranquille e famigliari concluse dai rustici tetti di tegole. Solo la cella campanaria centrale assume valore, indicando da lontano il monumento e continuando dal basso in alto come in un crescendo, il pregio della forma. La sua sagoma, nelle tenui accentuazioni di una un po’ grossa sinuosità, sintetizza bene il gusto di agreste sensualità barocca con quello di levigata essenzialità moderna.
È al suo posto quella chiesetta sulla collina veneta, pur nella sua modestia.
Ad analoghe attitudini, ma con maggior fasto e predominio del tema tradizionale delle ville venete settecentesche, si ispira il progetto di trasformazione e di sistemazione di una casa di campagna signorili sul Lago di Garda. È meno interessante.
Maggior valore e personalità presenta la nota casa del farmacista al Lido di Venezia, ove la tendenza barocca è resa assolutamente attuale della semplicità volumetrica, dalla levigatezza e chiarità delle superfici e da un certo senso equoreo, come di conchiglia marina, chiuso nelle tenui tortilità delle scarse sagome, vive appunto perchè delicate e sottili sul piano breve della facciata. Sta molto bene al Lido questa casa. Più tortuosa ed ambigua, meno simpatica, in attitudini non dissimili, la lapide ai Caduti del 71° e 118° Fanteria.
Nell’ingresso e nel bar della XVa Biennale Veneziana, le essenziali nudità dei piani assumono valori più compiutamente moderni e settentrionali. Effettivamente il desiderio di chiarezza e costruttività, di abbandono del superfluo, di una sempre maggiore interiorità esprimibile mediante le forme in sè stesse, a prescindere da veli decorativi, caratterizza il nostro modo attuale di sentire l’architettura, così come nella vita siamo o vogliamo essere semplici, franchi, attivi e concreti.

L’Arch. Giuseppe Torres ha recentemente edificata la Pieve di S. Stefano in Sigliano Veneto.
La bella chiesetta, che sintetizza certi caratteri romanici e bizantineggianti con la fresca ed un po’ rozza sensibilità dell’Architettura rustica Veneta, risente di una composizione volumetrica originale ed armoniosa.
L’esecuzione accurata rende saporose le superfici esterne, molto umili del resto, com’è voluto dall’ambiente.
L'interno, nella sua semplicità, è gradevole.

L’architetto Orfeo Rossato ha costruite al Lido alcune ville che si fanno notare per le attitudini sinteticamente moderne della composizione. Sono lavori sinceri e simpatici.
P. M.

COMMENTI E POLEMICHE

L’ORGANIZZAZIONE SCIENTIFICA NELLO STUDIO
DEI MONUMENTI

Più volte in questa Rivista il sottoscritto ha toccato tale grave argomento. Non è male tornarvi ancora ed insistere affinchè, per lo meno, non il problema sia risolto, ma si abbia la coscienza che un problema esiste.
Nella cura della conservazione dei monumenti e delle opere d’Arte noi siamo ancora molto spesso in pieno empirismo, che talvolta assume perfino le forme grottesche della stregoneria e della magia. Nei quesiti essenziali della statica dei monumenti ancora le norme della scienza delle costruzioni, ragionevolmente tradotte e ridotte in relazione alla vecchiaia degli organismi ed alla necessità di conservarli ad ogni costo, rappresentano tuttavia una guida severa; ma nelle spicciole questioni di conservazione di pietre, di legnami, di intonachi, di stucchi, di pitture ecc., l’opera cieca del praticone prende il sopravvento e si traduce bene spesso in effettive rovine.
E quanti problemi si presentano ogni momento al restauratore! Come arrestare il deperimento di intagli in marmo? o lo sfaldarsi di blocchi di pietra o di colonne giunte ormai alla loro scadenza di stabilità? Come salvare gli affreschi dal degradamento progressivo e come evitare, ad esempio, che la loro scoperta e la liberazione dalla terra che li chiudeva non sia che una breve meteora, non rappresenti una colpevole distruzione? Come ridare forma agli oggetti di bronzo corrosi? Come salvarne la patina? Come consolidare dipinti ed ornati che tendono a distaccarsi, con metodi che ci assicurino la loro conservazione non per un illusorio periodo effimero, ma nel lontano avvenire?
Uno dei casi più tipici è quello degli affreschi. Talvolta essi deperiscono e si cancellano o si alterano per la soverchia umidità del muro che rivestono, talvolta per la soverchia asciuttezza. Talvolta le cause trovansi in ragioni intrinseche di involuzione o trasformazione chimica, od in elementi parassitari biologici, od in marcescenza delle pietre o dell’intonaco su cui appoggiano; e si distaccano, o si polverizzano, o si macchiano irregolarmente o mutano colore.... Gli affreschi di S. Maria Antiqua al Foro romano, di S. Francesco di Assisi, del Camposanto di Pisa, del cenacolo leonardesco, della cripta di S. Maria del Piano ad Ausonia rappresentano altrettanti casi clinici, taluni disperati, altri no, ma tutti degni di uno studio severo e sistematico, che accumuli le nostre incerte cognizioni e le porti a risultati concreti.
E per le pietre ed i marmi che si disgregano, come al portale del Duomo di Cefalù, alle gallerie di S. Andrea di Vercelli, alle opere vignolesche in Roma, quale può essere la diagnosi, quale il rimedio? Trattasi prevalentemente di azione esterna delle intemperie o di interna alterazione fisica o chimica? Sono efficaci i silicati che chiudono e soffocano in uno strato impermeabile, o i grassi che impediscono il fermarsi dell’acqua o speciali spalmature saponacee, o iniezioni a forte pressione? Oppure tutti i rimedi sono inutili e non v’è che l’extrema ratio della sostituzione? E quando ed in quali casi?
Tutto questo studio, parte deduttivo parte induttivo, dovrebbe essere opera di scienziati, come lo è nella medicina umana; e dovrebbe valersi di tutti i portati della scienza moderna, dalla chimica, alla fisica, alla biologia, di tutti i mezzi delle tecnica moderna, dalle indagini coi raggi Roentgen ai procedimenti di iniezioni di silicati o di cementi, e drenaggi ed apparecchi essicatori; e dovrebbe far capo a constatazioni regolari, ad esperimenti ben controllati, a conclusioni parziali da cui ci si avvii a nuovo cammino verso risultati generali e verso leggi ben definite. Invece così non è. Siamo ancora nel periodo dei tentativi frammentari che spesso danneggiano invece che riparare, nel regno degli empirici, talvolta abilissimi per tecnica esecuzione manuale, ma quasi sempre ignoranti, che si rifugiano nel mistero dei preparati di loro invenzione, così come fa, di contro al medico, lo specialista della quarta pagina dei giornali.
Occorre dunque che finalmente in questi muri umidi, in queste strutture cadenti penetri la scienza; la quale non è altro che metodo di osservazione, coordinamento delle cognizioni dei competenti, tesaurizzazione dei risultati acquisiti, utilizzazione dei più diversi mezzi tecnici d’indagine e di opera. Ed è doveroso farlo senza indugio.
E non è difficile la via da seguire, purchè si voglia con tenacia, sgombrando la mente da pregiudizi e da riguardi personali: chiamare in ausilio i laboratori scientifici che per altri scopi, didattici od amministrativi, esistono nelle principali città italiane ed in partirolare a Roma; riunire in convegni periodici i Sovraintendenti ai Monumenti ed alle opere d’Arte per formulare quesiti, comunicarsi i risultati di osservazioni, inquadrare il lavoro teorico e pratico nei casi concreti; pubblicare in apposita rubrica del Bollettino d’Arte del Ministero della Istruzione quelli che possono dirsi dati definitivi nello studio sperimentale; preparare infine una categoria di tecnici specialisti, che siano edotti non solo della pratica delle operazioni chirurgiche, come ora sono, ma anche dai criteri di fisiologia, di igiene, di terapia che debbono presiedere allo studio analitico ed alle cure adeguate.
Al Governo fascista il provvedere i mezzi, tutt’altro che ragguardevoli, per svolgere questo programma; alla Direzione generale di Belle Arti l’attuarla con metodo, con energia, con oculatezza. Il prezzo è la salvezza di una parte cospicua del nostro incomparabile patrimonio artistico nazionale.
GUSTAVO GIOVANNONI

BIBLIOGRAFIA

E. F. MAGER, Some Notes on the parthenon. in Journal of the R. Institute of British Architects, 25 febbr. 1928, 12 maggio 1928.

Sono note le discussioni e le ipotesi sorte sul quesito della interna illuminazione dei templi greci fin dai primi tempi da cui data il loro studio scientifico. Molti moderni studiosi, a cominciare dal Penrose e dal Fergusson, si sono proposti il tema, e, nell’assenza assoluta di elementi diretti (poichè delle coperture degli antichi monumenti nulla più ci rimane), e nella scarsezza dei riferimenti letterari (che si limitano a pochi ed incerti passi di Vitruvio, di Pausania, di Giustino) hanno supposte ingegnose soluzioni consistenti in discontinuità del tetto, tali da consentire di portare spiragli di luce nell’interno della cella.
In questo stesso ordine di ricerche trovasi il recente studio del Mager che in parte riannodasi alle proposte dello Chipiez.
Le figure qui unite, tratte dagli articoli sopra indicati, dimostrano chiaramente le più tipiche ipotesi. Il Fergusson supponeva dei pozzi longitudinali, a cui avrebbero corrisposto aperture nella interna parete verticale, formanti un terzo ordine architettonico, con una disposizione interiore non dissimile da quella delle grandi sale ipostile nei templi egizi, e dagli oeci o dalla basiliche dei romani. Chipiez ed il Mager invece immaginano una illuminazione orizzontale nell’alto dei loggiati della cella, ottenuta mediante una duplice serie di lacunari traforati. L’ordinamento architettonico interno, invece che frazionarsi in una triplice sovrapposizione di ordini, rimarrebbe composto da due ordini soltanto (come dimostra il tempio di Nettuno a Pesto), e sovra essi il soffitto.
L’ipotesi è elegante, ma, come tutte le altre analoghe, ha il difetto di essere artificiosa e di creare complicazioni costruttive che non sembrano rispondenti alla semplice concezione che anima il tempio geco. Anche la disposizione ipetra, o quella semi-ipetra, a lucernario centrale, a cui sembra attenersi lo Choisy, non debbono essere state che soluzioni d’eccezione, determinate più da insufficienza costruttiva, ed in particolare dalla difficoltà di procurarsi grandi travi di legno, che da ragioni d’arte.
Ben più logico è affidarsi, fino a prova contraria, alla spiegazione semplice e diretta, cioè quella della semi-oscurità della cella, illuminata solo dalla porta amplissima, a cui non è fuori luogo supporre un sovraporta del tipo di quello del Pantheon, e da taluni spiragli ricavati nell’alto del muro, sotto il peristilio, forse in corrispondenza di alcune metope vuote. Nella vivace luminosità del cielo di Grecia o di Sicilia, la ricerca dell’effetto nell’interno dei templi deve essersi sempre basata sulla semioscurità, così come era avvenuto nei monumenti egiziani e come seguiterà ad avvenire in tutta l’architettura di Oriente: a naturale contrasto con l’aspirazione architettonica nei paesi del Nord, ove, specialmente nelle chiese, lo sviluppo verticale e l’ampiezza delle vetrate mostrano la tendenza ad accoglier la massima quantità di luce, simile agli alberi di un fitto bosco che s’innalzano verso il sole. Le statue dorate di cui tanti antichi templi erano adorne sembrano fatte non per la luce aperta, ma per la penombra, che permette di passare dalla prima suggestione mistica alla successiva percezione più tranquilla dei mirabili particolari. Probabilmente dunque gli architetti e gli artisti greci non si sono mai neanche poste codeste questioni, che ora affaticano l’ingegno sottile dei nostri studiosi.
G. GIOVANNONI.

I. C. GAVINI. - Storia dell’Architettura in Abruzzo. - Vol. I e II. - Casa Editrice d’Arte Bestetti e Tumminelli. - Milano-Roma 1927.
Dopo l’opera che il compianto Vincenzo Bindi aveva pubblicato nel 1880 sui monumenti storici ed artistici degli Abruzzi, densa di documenti e che dato il tempo nel quale era stata scritta, rappresentava veramente un notevole contributo, oserei dire inizio, per la storia dell’Arte Abruzzese, pochi studiosi si erano intrattenuti sull’Arte di questa terra che ha manifestazioni veramente singlari.
Studiosi locali che non erano andati oltre la ristretta cerchia delle loro mura ed ai quali d’altra parte dobbiamo sempre essere grati di questa loro opera di pionieri, da ricordarsi fra tutti Pietro Piccirilli di Sulmona, il Bellini, il Savini, il Panello, Mezzanotte ed altri che sulla loro Rivista di Arti, Lettere e Scienze, edita a Taranto dal Panella, si può dire hanno per i primi iniziati gli studi sull’Arte Abruzzese. Il Bertaux pubblicando nel 1904 il primo volumo della sua Art dans l’Italie Meridionale studiò anche alcuni monumenti abruzzesi, non sempre sereno però nelle sue conclusioni, ebbe sopratutto il merito di richiamare l’attenzione degli studiosi su molte opere neglette o sconosciute ai più.
L’opera che l’Arch. Ignazio Carlo Gavini pubblica per i tipi della Casa Bestetti e Tumminelli e che egli intitola «Storia dell’Architettura in Abruzzo», affronta in pieno il problema delle origini e della evoluzione della Architettura Abruzzese. Egli studia con amore profondo i vari monumenti sparsi in questa magnifica regione, ancora pur troppo così poco nota agli italiani, andandoli a ricercare in ogni angolo sperduto nelle profondità delle valli o sulle cime dei monti, portando ovunque il suo occhio attento di conoscitore e di amatore.
L’opera è veramente poderosa e ricca di belle illustrazioni, alcuna delle quali preziose perchè si riferiscono a monumenti ormai scomparsi, distrutti dalla furia del terremoto o dalla ignoranza degli uomini.
La serietà con la quale il Gavini ha condotta questa sua opera si rivela oppunto dal fatto che egli non ha dimenticato nessun elemento che avesse potuto portare un pò di luce nell’intricato groviglio delle scuole e degli influssi che hanno dato indirizzi così vari negli elementi costruttivi e decorativi dei monumenti d’Abruzzo.
L’Arch. Gavini ha veramente e profondamente studiato le opere architettoniche della Regione Abruzzese, analizzandole nei loro elementi, scrutandole nelle loro origini, raggruppandole e ricollegandole con intuito felice. Egli viene a conclusioni quasi sempre esatte anche quando elementi estranei o la vicinanza di altre opere avrebbero potuto fuorviarlo.
Io stesso eseguendo, per ragioni del mio ufficio, alcuni restauri in opere d’arte illustrate dal Gavini, ho potuto trovare elementi che, sconosciuti all’A., confermano quanto egli aveva asserito.
Dei due volumi che compongono l’opera, il primo ci sembra il migliore ed è veramente completo. Su questo volume egli studia i monumenti d’Abruzzo dai secoli avanti al mille fino al secolo XIII.
Non era facile ritrovare gli elementi dell’Architettura Abruzzese del periodo avanti al mille, considerando che ben poche vestigia ci restano poichè quasi tutte le costruzioni sono posteriori al mille e molti elementi erano stati assorbiti o distrutti o furono applicati come elementi decorativi per le nuove costruzioni. Non era facile fare queste ricerche in Abruzzo ove, salvo rarissimi casi, non esistono notizie d’archivio e l’A. ha dovuto certamente andare a ricercare i monumenti senza alcuna guida e senza la scorta di alcun documento.
Nessuna meraviglia se in queste difficoltà di ricerche alcuni monumenti anche importanti possano essergli sfuggiti, come i resti della Cattedrale dell’antica Forcona, che fu sede Vescovile e nella quale il Signorini (1) ricorda di aver visto una lapide del VII secolo dedicato al Vescovo Albino che fu il II Vescovo Forconense.
L’Architettura dal secolo undecimo fino agli inizi del trecento è analizzata nelle sue varie manifestazioni in modo completo e l’A. ne ricollega le fila e le correnti sparse nella vasta Regione Abruzzese, accostando fra di loro i vari monumenti per classificarli secondo le diverse scuole che, nate da un unico ceppo, abbero centri dai quali si irradiarono, S. Liberatore a Maiella, S. Clemente a Casauria, ecc.
Il secondo volume si occupa dell’Architettura dal secolo XIV fino al secolo XVI. Avremmo desiderato che l’A. si fosse più ampiamente soffermato su questo ultimo periudo nel quale si attardano le forme romaniche o gotiche sposandosi e ingentilendosi nel rinascimento, con espressioni d’arte veramente originali.
Quanti si occupano di Architettura devono essere grati all’A. per questa sua pubblicazione così ricca di prezioso materiale, scelto con amore di artista e che porta nuova luce sulla storia dell’Arte Abruzzese. È questa la prima opera che, seguendo un metodo scientifico, inquadra in modo completo l’Arte d’Abruzzo ricollegandola ai vari movimenti artistici delle altre regioni d’Italia. Gli devono essere particolarmente grati gli abruzzesi per aver egli studiati e fatti conoscere tanti monumenti che onorano questa terra generosa e la genialità dei suoi figli, questa terra, ove - riporto le parole con le quali l’A. chiude il suo secondo volume - non si concepiva una esistenza, anche modesta, senza che il sorriso dell’Arte non venisse ad allietarla. Poichè era innato il sentimento (che oggi pur troppo tende a scomparire) che l’Arte non debba allietare soltanto la vita di una generazione, ma sopravvivere nelle generazioni future.
ARMANDO VENÈ.

(1) A. SIGNORINI: La Diocesi di Aquila, pag. 99 del I vol.

SINDACATO NAZIONALE ARCHITETTI

PAGINE DI VITA SINDACALE

CONVOCAZIONE DEL DIRETTORIO NAZIONALE E DELLE SEGRETERIE REGIONALI DEL SINDACATO.

Convocati dal Segretario Nazionale arch. Alberto Calza-Bini, nei giorni 23 e 24 Novembre si sono riuniti in Roma i componenti del Direttorio Nazionale ed i Segretari Regionali del Sindacato Architetti, per discutere i seguenti temi:
Tariffa Professionale.
Giunte Sindacali.
Attività dei Sindacati Regionali.
Scuole di Architettura.
Contributi.
Erano presenti gli architetti: Brioschi - Boni - Chierici - Fagnoni - Magni - Stacchini - Sullam - Venturi, componenti il Direttorio Nazionale e gli archittetti: Trebbi - Cerpi - Mainetti - Pantaleo - Melis de Villa, Segretari dei Sindacati di Bologna, Firenze, Milano, Napoli e Torino.

Dopo lunga e laboriosa discussione sulle tariffe professionali, data l’'importanza e la vastità dell’argomento, ritenendosi che la tariffa presentata dal Sindacato di Roma, seppure suscettibile di modificazioni, risponda meglio ai suoi scopi che non quelle presentate dai Sindacati di Milano, Torino e Venezia, il Segretario Nazionale delibera di distribuire a ciascun Sindacato la proposta di Roma, perchè entro 10 giorni i Segretari Regionali la restituiscano con le aggiunte e modifiche che crederanno opportune.
Esaurito il tema, si constata la necessità di far funzionare al più presto le Giunte Sindacali, che ancora possono esser nominate, non avendo la Commissione Centrale per la iscrizione agli Albi esaurito il suo compito; si approva perciò il voto seguente:
«Il Direttorio Nazionale del Sindacato Architetti, alla presenza dei Segretari Regionali, ritenuto che urge dare definitivo assetto alle organizzazioni degli Architetti e delle Giunte Sindacali, fa voti che la Commissione Ministeriale per gli Albi affretti la chiusura dei lavori a lei affidati, e prega la competente autorità perché trasmetta sollecitamente la lista degli inscritti agli Albi degli Architetti ai rispettivi Presidenti di Tribunale, per la definitiva compilazione degli Albi professionali».
Sull’argomento delle Scuole di Architettura, di capitale importanza per la classe degli Architetti, si discute lungamente; il Segretario Nazionale infine, raccogliendo i voti dei presenti, compila il seguente ordine del giorno, approvato all’unanimità dal Direttorio:

«Il Direttorio Nazionale del Sindacato Architetti ritiene, in accordo con la grandissima maggioranza degli studiosi, che condizione essenziale per il risveglio e l’affermazione dell’architettura nella vita moderna - con quella funzione squisitamente politica che l’architettura ha avuto per tutti i popoli e in tutti i tempi - sia l’esistenza di una figura ben delineata e chiara dei professionisti architetti, e, logica e naturale conseguenza, l’esistenza di apposite Scuole di Architettura viventi di vita propria nel grande quadro della coltura superiore italiana.
«Riconoscendo appunto nelle leggi fasciste sulla professione e sul titolo, e in quelle dell’inquadramemto sindacale e della funzione dello Stato Corporativo, la volontà del Regime di attribuire alla classe degli architetti una precipua e caratteristica missione, e ricordando le alte e nobili parole pronunciate dal Capo del Governo sulla differenziazione necessaria e legittima tra le professioni degli ingegneri e degli architetti, il Direttorio vuole proclamare la sua serena fiducia che il Ministro della Pubblica Istruzione nel procedere alla riforma degli insegnamenti universitari voglia assicurare alle Scuole di Architettura, con la loro spiccata autonomia didattica, la dignità e il grado di Istituti di Istruzione Superiore.
«E afferma infine che, intesa come deve intendersi l’opera degli architetti nell’attività edilizia, opera che si manifesta anche in ogni piccola esplicazione purchè guidata da un vigile senso di bellezza, chiara si delinea la necessità per la Nazione di disporre di un grande numero di professionisti forniti di quella solida e completa preparazione tecnica e raffinata sensibilità artistica, quale soltanto nelle Scuole di Architettura è dato raggiungere».

Dopo avere esaminato l’azione svolta sinora dalle varie Segreterie Regionali, e tracciate le linee per la futura attività del Sindacato, si passa alla questione dei contributi. Dopo attento esame della situazione attuale e delle necessità che si prospettano, il Direttorio Nazionale approva la deliberazione seguente:

«Il Direttorio Nazionale del Sindacato Architetti, alla presenza dei Segretari Regionali, esaminate le necessità che si prospettano per l’amministrazione del Sindacato durante l’anno 1929, delibera di chiedere alle Superiori Gerarchie il permesso per l’applicazione dei contributi volontari per ciascun inscritto al Sindacato nella misura seguente:
Per il Sindacato Regionale L. 3 mensili.
Per il Circolo Regionale di Coltura L. 3 mensili.
Per la Segreteria e il Direttorio Nazionale L. 2 mensili.
e delibera infine che i contributi per il funzionamento delle Giunte Sindacali e della Comminione Centrale, che a norma di Legge sono obbligatori per tutti coloro che esercitano la professione, anche se non inscritti al Sindacato, siano stabiliti nella misura di:

L. 2 mensili per le Giunte Sindacali.
L. 1 mensile per la Commissione Centrale ».

Prima di sciogliersi il Direttorio Nazionale vota altri due ordini del giorno, uno relativo al bando di concorso per il palazzo Provinciale di Napoli, ed un altro relativo all’organico degli Enti Pubblici nei riguardi degli Architetti: ecco il Testo del Primo:

«Il Direttorio Nazionale del Sindacato Architetti, alla presenza dei Segretari Regionali, presa cognizione del Bando di Concorso per il palazzo della Provincia di Napoli, constatato che manca nel Bando stesso ogni qualsiasi garanzia, per la brevità del tempo concesso ai concorrenti, per la mole di lavoro richiesta, per le esiguità del premio, delibera:
«di richiedere la collaborazione del Sindacato Nazionale Ingegneri, per agire presso le competenti autorità onde ottenere la revoca del Bando a la sua rinnovazione con le norme richieste dalla logica e dalla serietà professionale, come i Sindacati Tecnici ed Artistici vanno da tempo insistentemente richiedendo.
«Nel caso di infruttuosa azione in tal senso, delibera inoltre di invitare tutti gli inscritti a boittare il Concorso, rendendo di pubblica ragione il deliberato».

Ed ecco il Testo del secondo:

«Il Direttorio Nazionale del Sindacato Architetti, alla presenza dei Segretari Regionali, premesso che il Sindacato ritiene sia compito precipuo degli Enti Pubblici di tutelare, approvare e sorvegliare le varie manifestazioni di edilizia cittadina;
«ritenuto che gli edifici pubblici di particolare importanza devono essere affidati attraverso pubblici concorsi, fa voti che:
«Nel caso che i progetti vengano eventualmente eseguiti per speciali necessità da tecnici degli uffici, siano pubblicamente resi noti gli autori dei progetti medesimi.
«ritenuto che gli attuali organici dei tecnici degli uffici pubblici non rispondono al riconoscimento sancito dalla legge nei riguardi del titolo e della competenza professionale degli Architetti, fa voti che intervenga sollecitamente una riforma degli organici stessi in rispondenza ai diritti derivanti agli Architetti dallo spirito e dalle norme della nuova legge fascista».

Dopo esaurienti discussioni su altre questioni di minor conto riguardanti gli interessi e le attività della classe degli Architetti, la convocazione viene sciolta.

Il Segretario Nazionale
Arch. ALBERTO CALZA-BINI.

CONCORSI

CONCORSO PER LA RICOSTRUZIONE DELLA FACCIATA DELLA VENERABILE ARCICONFRATERNITA DELLA MISERICORDIA IN FIRENZE.

Si è costituito in Firenze un Comitato per la ricostruzione della facciata della sede di detta Arciconfraternita, la quale è posta a lato della Torre Giotto ed è prossima alla loggia del Bargello ed al Battitero. A tale scopo il Comitato ha indetto un concorso fra gli Architetti Italiani inscritti al Sindacato, lasciando libertà di scelta sul carattere della facciata purchè intonata all’ambiente.
Il concorso scade alle ore 18 del 10 aprile 1929. I premi assegnati sono cinque, di L. 20.000, 10.000, 5.000, 3.000, 2.000 rispettivamente. I premi sono indivisibili e la Giuria si riserva la facoltà di assegnarli tutti, o di non assegnarli a suo insindacabile giudizio.
Per la planimetria dell’edificio ed altre notizie è necessario rivolgersi al Comitato, presso la sede dell’Arciconfraternita.

ESITO DEL CONCORSO INDETTO DALL’ISTITUTO PER LE CASE POPOLARI DI MILANO.

Il 30 settembre scorso si è chiuso il concorso indetto dall’Istituto Case Popolari per un gruppo di costruzioni da erigersi in fregio al Viale delle Argonne.
La Giuria, presieduta dal gr. uff. Giuseppe Borgomaneri, e composta dal consigliere delegato dell’Istituto ing. comm. Gorla, non ha ritenuto di poter assegnare il primo premio, ha invece distribuito i premi successivi secondo la graduatoria seguente:
Il premio di L. 20.000, all’arch. Giovanni Crescini di Milano.
III, IV e V premio di L. 5000, ognuno rispettivamente ai progetti dell’ing. Francesco Guzzo di Venezia, dell’ing. Giovanni Manfredi di Milano e degli architetti Leonardi e Martinenghi di Milano, proponendo, per quello dell’ing. Gusso, in segno di particolare riconoscimento, che esso venga acquistato dall’Istituto, col versamento di altre L. 5000 secondo è prescritto dal bando di concorso, onde rimanga, insieme con quello dell’arch. Crescini, di proprietà dell’Istituto stesso.

ESITO DEL CONCORSO PER IL PIANO REGOLATORE DI FOGGIA.

La Giuria indetta allo scopo ha assegnato i seguenti premi al concorso indetto per lo studio del piano regolatore della città di Foggia:

Primo Premio. - Al progetto degli architetti ed ingegneri: Cancellotti, Lavagnino, Lenzi, Piccinato, Scalpelli, Valle.

Secondo Premio - Al progetto degli architetti ed ingegneri: Petrucci, Susini, Zufaroli, Paolini.

Terzo Premio ex aequo. - Al progetto degli architetti ed ingegneri: Chiodi, Merlo, Brazzola.

Terzo Premio ex aequo. - Al progetto degli architetti ed ingegneri: Ciampoli, Lombardi, Messina, Vetriani.

Ad uno dei prossimi fascicoli l’illustrazione dell’interessante concorso.

LA REVOCA DELL’ESPOSIZIONE INTERNAZIONALE D’ARTE DECORATIVA ED INDUSTRIALE DI MONZA 1928.

L’ufficio stampa dell’Ente promotore ci prega pubblicare in proposito, quanto segue:
«Le ultime note vicende del Consiglio d’Amministrazione del Consorzio Milano-Monza-Umanitaria, che hanno portato alla nomina del Senatore Bevione a Commissario dell’Ente, avevano di molto ritardato il lavoro di organizzazione artistica e di preparazione finanziaria della IV Biennale delle arti decorative e industriali moderne, la quale, avrebbe dovuto aver luogo dal Maggio all’Ottobre dell’anno prossimo. E pertanto lo stesso Commissario ha deciso di rimandare al 1930 l’Esposizione, considerando gli inconvenienti del rinvio insignificanti in confronto al grave danno che sarebbe certamente derivato da una Mostra puntuale ma preparata affrettatamente.
«Il ritardo sarà sicuramente e largamente compensato da un intenso perfezionamento della Mostra e dei suoi servizi, da un rinnovato fervore di tutte le sue manifestazioni, di modo che l’Esposizione del 1930 rimanga memorabile tra le rassegne internazionali d’arte decorativa.
«Gli architetti Alpago e Ponti e il pittore Sironi, facenti parte del Direttorio, sono stati riconfermati nell’incarico, avendo essi, in seguito ad una precisa richiesta rivolta loro dal Commissario, assunto l’impegno di una collaborazione armonica e feconda fino alla completa preparazione della Mostra».

LE MOSTRE PER LA VALORIZZAZIONE COLONIALE A TRIPOLI.

Nella primavera prossima avrà luogo in Tripoli d’Africa la terza manifestazione annuale per la valorizzazione della Tripolitania, indetta, come gli scorsi anni dall’Ente Autonomo della Fiera, il quale, dagli uffici di Roma, ha già iniziato il lavoro di organizzazione.
Dopo il successo della scorsa primavera questa terza manifestazione è destinata a contribuite ancora più largamente che per il passato allo sviluppo dell’attività economica della Tripolitania, sopratutto dal punto di vista agricolo.
Fervono già i lavori per la costruzione del nuovo quartiere della Fiera che sorgerà sopra un’area di oltre 50.000 metri quadrati, appositamente acquistata per erigervi magnifici e grandiosi padiglioni i quali ospiteranno le interessanti mostre di cui il programma è ricco.
È già assicurato per tale avvenimento un grandioso concorso di visitatori che saranno attratti anche dalle numerose manifestazioni turistiche, sportive, artistiche e folkloristiche che sono in via di alacre preparazione.

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