FASCICOLO VII MARZO 1925
Recenti opere di architetti Lombardi e delle Venezie
Sentiamo già che qualche cosa di nuo-vo aleggia nell’architettura italiana. I no-stri artisti, dopo un vagabondare in tutti i campi in cerca di nuove impressioni, come fanno le giovani esistenze che si aprono alla vita e che cercano per ogni dove d’ap-propriarsi, di comprendere interamente il mistero delle cose, s’incamminano ora per vie sicure. Li guida la nostra grande tradizione in tutte le sue varietà regionali. Ma il bello è che essi han capito lo spi-rito dello stile e non si sono fermati alla lettera. Guai a chi non vede oltre. In que-sta rassegna ci piace di confermare il nostro asserto con una serie di recenti opere di architetti dell’Italia settentrionale, dolenti soltanto che lo spazio non ci consenta per il momento di offrirne delle altre.

I LOMBARDI

Dell’architetto E. Griffini (di cui alcune opere sono già note ai lettori della presente rivista) diamo una edicola monumentale del cimitero di Milano che ha vari pregi di originalità e di buon gusto.
L’architetto Giovanni Muzio predilige il neoclassicismo lombardo, ed è noto che la Lombardia ha le espressioni più schiette di questa rifioritura ellenica posta a servizio dell’impero napoleonico. Perciò la fonte d’ispirazione è tutt’altro che bastarda e si presta, sotto la disciplina di un’anima duttile e squisita come quella di Muzio, ad applicazioni moderne di vera nobiltà. Si veda, come esempio di straordinario buon gusto e di chiarezza costruttiva, il casino del “Tennis Club” sorto in Milano. Diamo qui appresso qualche dettaglio di tecnica architettonica:
Questo Club è il più grande d’Italia, ed uno dei più grandi d’Europa, superficie complessiva di circa 20.000 mq. 10 campi eseguiti e 4 in costruzione; i campi sono in argilla compressa e polvere di mattone, circondati da siepi e da ampie vie fiorite. La costruzione nella parte anteriore, sopralzata di circa 1,20 sui campi consta di un solo piano e vi trovan luogo l’ingresso con la scala di quercia che porta sulla terrazza, la sala del bridge, il salone decorato con le pareti a stucco ed il pavimento a mosaico, e il bar aperto da ogni lato a belvedere sui campi.
Nella parte posteriore la fabbrica è divisa in tre piani: il semisotterraneo con le docce, i servizi sanitari e sportivi indipendenti per le signore e per gli uomini; ciascuno di questi gruppi comunica direttamente con gli spogliatoi che si trovano al piano delle sale. Una scala di servizio comunicante direttamente con l’esterno porta agli impianti di elevazione d’acqua, riscaldamento, acqua calda, lavanderia, ecc. che si trovano al semisotterraneo ed al primo piano dove si trovano le abitazioni del custode e del trainer.
Completi servizi di cucina, al semisotterraneo e di office servono il bar il salone e la terrazza.
Indipendente dal fabbricato principale sorge il padiglione dei ragazzi con spogliatoi e servizi igienici e sotto al quale son praticati i rustici del giardino.
Pure all’architetto Muzio si devono i progetti di alcune chiesuole del contado lombardo, e cioè ad Albino e a Zorzino (1), nonchè uno strano monumento funerario del cimitero Monumentale di Milano, opere che, specialmente nella stele con la bella candeliera classica, si ricollega alle tradizioni dell’arte provinciale romana.
C. CECCHELLI.

(1) Le esigenze dello spazio ci obbligano a malincuore a rimandare ad altro numero il cliché della chiesa di Zorzino.

VENETI

Anche la regione Veneta conta architetti che rispondono all’appello della Patria che vuole risorgere, e non è difficile individuare (per tributar loro la lode voluta) gli artisti che seppero mettersi alla pari e forse superare i nuovi tentativi stranieri.
Sono quasi sempre animi fervidi che vivono della loro attività spirituale, costanti nelle rinuncie di facili guadagni, come cavalieri ideali che dell’arte fanno la loro ragione di vivere, ond’essi vanno formando la stirpe rinnovata dell’Italia nuova.
Non sono necessarie grandi cose per scoprirvi le virtù rigeneratrici dell’arte. Nella piccola cosa curata con amore e con concentrazione di spirito, da cui l’artista non attende compensi lusingatori, troviamo spesso il risultato atteso.
Qui l’artista trova la soddisfazione di non aver abbassata quella dignità che è il merito principale dell’opera da lui concepita. Infatti quando l’artista non ha dignità difficilmente può esprimersi con nobiltà.
Oggi vediamo veramente risorgere questa dignità nell’architettura, e non credo superfluo dire che ciò deriva da un mutamento di ordine psicologico. Abbiamo sempre nei grandi periodi storici delle ondate di spiritualità, che mutano orientamento al pensiero umano, risvegliano l’uomo dal torpore dagli accomodamenti nei quali s’era adagiato e troppo a lungo indugiato, divenendo sterile.
Poichè ho oggi sottomano alcune delle opere di Brenno del Giudice credo buona cosa offrirle alla conoscenza dei colleghi.
Questo giovane e attivo architetto si compiace spesso di non essere mai stato impacciato, al tempo dei suoi studi, da dogmi, né da costrizioni personali del suo maestro, il quale, d’altra parte, era scevro della vanità di essere imitato. Così egli trovò subito una via così vasta che l’obbligava a concentrarsi in sè stesso e trovare nella sua sofferenza la visione di se stesso artista. Se nella prova severa egli non avesse dato affidamento di ritrovarsi, certamente al vigile maestro non restava che iniziarlo alle comuni imitazioni e assoggettarlo ai dogmi che facilitano la via di troppi architetti. Ma egli seppe scorgere e comprese le opere cospicue degli antichi maestri, sentì in esse quella rispondenza che è tradizione, quella tradizione che, prendendo per la via imitativa, non avrebbe forse mai trovata.
Infatti la tradizione non è al di fuori di noi, ma in noi stessi e come tutte le cose dello spirito noi non possiamo rintracciarla che nel concentramento in noi stessi. Essa è una qualità interiore dello spirito, ed è legata alle forze dell’Universo.
Se dovessimo illustrare adeguatamente le opere del Del Giudice, troppo esigerebbero di spazio.
Nelle varie sue ispirazioni possiamo notare, caratteristica fondamentale, l’assenza di effetti immediati all’occhio, la modestia e la sobrietà nell’esposizione grafica e un sentimentalismo discreto e tranquillo sì che obbliga quasi l’osservatore a mettersi in stato di purificazione, a spogliarsi cioè di molti preconcetti per poterlo apprezzare.
Brenno del Giudice ha due fonti d’ispirazione: l’arte del litorale veneto fra il medioevo e il primo rinascimento (vedi le due chiesuole che s’informano a tipi modesti e simpatici con schema quasi basilicale e con l’alto campanile trionfante nel silenzio luminoso delle lagune); la solida architettura veneto friulana della fine del cinquecento fortemente influenzata dal Palladio e dal Sansovino. Si veda inoltre di quanta deliziosa venezianità settecentesca è anche capace il nostro artista, quando immagina una sala di concerti per il Lido di Venezia.
Le sue ultime opere costruite: La modesta Chiesa di Candelù e le Ville Valentini di Treviso e Rossi di Lido (Venezia); tutte di ispirazione settecentesca (come la Villa dei Conti Papadopoli in Vittorio Veneto che venne altra volta illustrata in questa rivista ) sono opere concepite con amore. Avremo presto di lui altre opere che mostreranno il crescente sviluppo nella sua via tracciata sicuramente, poichè egli è guidato da istinto severo e onesto, il quale rifugge da ogni sentimento che coll’arte contrasti.
GIUSEPPE TORRES.

Alle opere dell’architetto Brenno del Giudice ci sia permesso unire anche una originale produzione di un altro veneziano, l’architetto Duilio Torres, e cioè uno stabilimento per la cura del sole eretto testè al Lido.
L’artista ha indovinato il tipo a terrazze del suo Solarium facendo si che esse aggettino successivamente dall’alto in basso. Ne è riuscita una strana architettura che piace per la sua novità per il partito architettonico e anche decorativo che l’artista ha saputo trarre dall’originale soggetto.
N. d. D.

TRIDENTINI

Di Tiella, di Polli, di Sottsass e d’altri architetti del ferace Trentino, parlò in un gustoso articolo apparso su questa rivista, Giorgio Wenter Marini, che è a sua volta un grande artista di quella terra. Egli spiegò il variare della loro arte con la diversa educazione ricevuta da ognuno e fece peraltro osservare come tutti sentissero profondamente il carattere della loro regione. Oggi le nuove opere (cui ne aggiungiamo altre del Wenter Marini) ci sembrano offrire una nuova conferma di tali rilievi.
Vedete come bene sia ripreso dal Wenter Marini il tipo anzi, lo spirito delle cittadine deliziose dell’alto Garda o anche di quelle che s’inerpicano sulle prime giogaie degli splendenti basalti delle montagne trentine. E come Ettore Sottsass dia sagome rudi e simpatiche alle sue casette, perfino ai suoi strani monumenti funerari. Il Polli invece pensa alla rinascenza lombarda e il Tiella si trova perfettamente a suo agio nel restaurare l’alpestre chiesa di Corano che ha i tipici tetti appuntiti e l’alabarda aguzza del campanile. Ma di tutti costoro, che hanno avuto un nuovo battesimo nella recente mostra di Architettura di Trento, facciamo seguire poche parole dovute allo stesso Wenter Marini.
(C. C.)

Un gruppo di artisti trentini ha organizzata per le feste vigiliane una mostra di architettura moderna. Alla quale vennero invitati pochi colleghi delle vicine provincie per dimostrare l’unità degli intendimenti della nuova generazione indipendentemente e al disopra di scuole e regioni.
Questa festa d’arte avvicinò gli architetti redenti ai migliori giovani del Veneto e della Lombardia. Si conobbero. Si videro che avevano comuni aspirazioni e parallele le forme d’arte. Si mostrò quindi un complesso organico e ben rispettabile.
Alle belle e serene composizioni architettoniche di Cabiati, Novello e Ferrazza, improntate ad un gusto grazioso faceva riscontro la costruzione eminentemente moderna in cemento armato di Duilio Torres, un edificio per la cura al sole che sorse al Lido di Venezia in maniera da rispondere a tutte le esigenze tecniche e terapeutiche che seppe trovare una naturale e giusta corrispondenza tra forma e materiale: forma e scopo: tecnica ed estetica.
Di simile struttura moderna, derivata dalle chiese Veneziane anteriori alla rinascenza, Brenno Del Giudice presenta la nuova chiesa di Candelù al Piave, strutture che plasmerà poi magistralmente ancor più a seconda dell’ambiente dando origine alla chiesa di Vidor sul Piave che risente ancor maggiormente del carattere montano ove entra la pietra come zoccolatura ed ove si accoppiano diversi motivi strutturali che dànno grazia e originalità. Bene si sente che essa deve sorgere per dominare la sommità di un colle.
Questo mirabile adattamento, che costituisce viceversa l’ispirazione specifica è lo stesso fenomeno che ritroviamo in Fagiuoli o in Polli, i quali nella villa semplice e senza pretesa si mantengono maestri dolci, finissimi che commuovono con la intimità della casa. Invece quando trattano il palazzo, sentiamo alitare la maschia natura moderna, abbeverata alla mirabile fonte del passato, che non frema avanti a problemi ben ardui in cui fu grande il rinascimento e poi il barocco e l’impero.
Avanti al Palazzo delle Poste a Verona di Fagiuoli sentiamo alitare il grande spirito di Roma Eterna che a Verona lasciò un’orma ben forte sposata alla garrula vita veneta. La villa quadra di Del Giudice sa pure improntare un problema di alto senso decorativo ispirandosi, con foga del tutto moderna, ai maestri barocchi veneziani. In queste manifestazioni i nostri moderni si riallacciano benissimo agli antichi e mostrano ciò che il modernismo parve non volesse accettare e ciò che la secessione non seppe ottenere: la diretta derivazione dal passato e la conseguente correlazione con esso pure salvando tutta la originalità e modernità dei nuovi tempi. Difatti l’epoca ottima di Koch e di Pio Piacentini non venne ripresa altro che da Marcello Piacentini nella Banca d’Italia (Sede di Roma).
Questa nota severa, austera, risulta pure nella Cassa ammalati di Trento di Sottsass, il quale, di ritorno da un viaggio a Roma, seppe infondere quel senso largo, fastoso, caratteristico della pietra sorpassando quel suo tipo duro e ancor privo della nota d’ambiente che caratterizzavano le sue opere modernissime.
Un bellissimo tema di restauro nel campo dell’arte rustica montanara senza pretesa ma pieno di spirito ingenuo è il Restauro delta Chiesa di Carano di Tiella. Al quale trae l’ispirazione dagli elementi costruttivi più semplici e non meno freschi ed originali delle nostre montagne.
E questa ammirazione per il passato evocata mirabilmente, la troviamo negli studi di carattere di Griffini il caldo giovane che già insegna al Politecnico di Milano che accoppia il sereno gusto aristocratico della capitale con la comprensione attenta e intelligente per l’ambiente rustico regionale. E questa nota influì ravvivando e purificando le sue forme gentilizie come lo dimostrano i diversi concorsi da lui vinti e le cappelle funerarie che ornano i cimiteri lombardi.
Dopo queste brevi note corredate da parecchie illustrazioni, che rivelano come il moderno edile debba essere un vero artista nell’anima e nella presentazione dei suoi lavori (e basta vedete i delicati disegni a penna di Griffini) sarà bene osservare una modesta raccolta di disegni degli studenti del R. Istituto Tecnico di Trento che, improvvisati decoratori, sotto la scorta preziosa del pittore Luigi Bonazza seppero creare con gusto personale e con rara bravura degli ornamenti per stoffe, terracotte e simili.
Ciò dimostra quanto giovamento possa portare una scuola industriale che deve formare le maestranze quando sia diretta in maniera corrispondente.

GIORGIO WENTERMARINI.


A quanto sopra si detto aggiungiamo una nota di P. M. Tua retativa al tabernacolo decorato a graffito, riprodotto in queste pagine:

Il tabernacolo del Luchel. La vallata di Pinè, cara ai Trentini, notissima ai devoti di tutta la regione per il suo Santuario, frequentata da una folla di villeggianti che vi affluiscono l’estate per ritemprarsi alla frescura imbalsamata delle sue abetaie, si è arricchita di un gioiello d’arte e di pietà.
Su la strada che, con alterna vicenda, or s ‘avvalla, or s’inerpica, ora pigramente si snoda fra ombrosi pini e assolate praterie unendo i colli di Vigo, di Baselga, di Miola, il lago della Serraia con Montagnaga; a venti minuti di cammino da quest’ultimo paese, è il Luchel. Qui le pendici del Grill e del Valt sembrano trattenere la marcia dei loro abeti per ammirare lo smeraldo di un vasto prato gemmato di fiori campestri, sorriso dal panorama lontano della Paganella e del gruppo di Brenta, che profila le sagome grandiose nel puro azzurro del cielo.
Da pochi giorni questo sito bellissimo vide aggiunto all’incanto della naturale vaghezza il sorriso di un’opera d’arte. Un rozzo capitello imbiancato di calce, recante un minuscolo crocefisso, quasi per magia venne trasformato in un georgico poemetto dal tocco nervoso, rapido, sicuro di Giorgio WenterMarini, il quale “procul negotiis” volle umanisticamente adoprare i suoi “ozii” pinetani.
Nel capitello del Luchel come nel breve giro di limpido sonetto è concentrata in rapida sintesi la rude poesia paesana che pervade i graffiti adornanti le chiese di Dasindo e di S. Ilario. Qui è, con nuove forme, espresso il misticismo che l’artista seppe rievocare nelle sue silografie di Ravenna e di Assisi; qui è la maschia bellezza delle tavole ove egli illustrò i più caratteristici aspetti del Trentino.
Campeggia nella nuova edicola la Croce bizantina circoscritta dalla corona di spine, fiancheggiata dai simboli della passione. Pendono dal frontone rami di pino e s'allacciano alle piante lacustri sorgenti dal basso dei pilastri, quasi a significare l’omaggio e del lago e della pineta: le naturali espressioni della valle.
Poi, torno a torno alle pareti commentate dal cantico dei Fratelli scampati alla fornace ardente, dai versetti imploranti la divina benedizione, sono rievocate con sobria e acuta stillzzazione le opere onde e intessuta l’aspra vita dei valligiani: la miniera, l’aratura, la pastorizia, il bosco.
Sostano i rudi minatori su l’ingresso delle viscere del monte fecondo di minerale; il bifolco guida il bue trascinante l’aratro che scava il solco dove maturerà il buon pane d’ogni dì; vanno mansuete le pecorelle onuste della calda lana che ci difende dal verno; alta leva la scure il boscaiuolo che prepara la legna pel domestico focolare. Diresti che i buoni lavoratori siano qui convenuti, attorno al simbolo di nostra Redenzione, per umiliare i loro voti, per ricevere la divina benedizione, alla loro quotidiana fatica. Dalla zona istoriata pende l’opera tessile: una bella tovaglia tramata a cerbiatti che conchiude la sobria decorazione con un nuovo motivo popolano.

PAOLO MARIA TUA

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